Il mistico senza Dio. Conversazione su Monsieur Teste di Paul Valéry

Conferenza tenuta da Marco Carniello per l’associazione Alliance Française Treviso il 12 novembre 2021 presso Palazzo Giacomelli di Treviso.

“Soffrire è dare a qualcosa un’attenzione suprema”

Monsieur Teste

Paul Valéry fu poeta, scrittore, pensatore francese attivo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Un autore che attraversò quindi il secolo delle grandi conquiste e delle grandi catastrofi dell’uomo.

Paul Valéry nel suo studio

Nato in Corsica a Sète nel 1871, Valéry muore a Parigi nel1945, città in cui si trasferisce e stabilisce fin da giovanissimo, all’indomani della liberazione dall’occupazione nazifascista. Alla notizia della liberazione di Parigi, Valéry, che è ormai anziano e malato, scrive un breve articolo, uno degli ultimi pubblicati, dal titolo Respirare. È il 2 settembre del 1944, qualche giorno prima c’era stata la resa dei tedeschi, e Valéry descrive così la libertà riconquistata:

“La libertà è una sensazione. La si respira. L’idea di essere liberi dilata il futuro dell’attimo. Fa dispiegare al massimo grado nei nostri petti certe ali interiori la cui forza ci trascina in una sorta di inebriante rapimento”.

Liberazione di Parigi

La libertà riconquistata è come una grande boccata d’ossigeno, è una rinascita. Si può finalmente ricominciare a passeggiare per le vie della città, senza più ostacoli né divieti. Si può tornare a fare le cose più semplici e più ovvie come poter parlare, a parlare con gli altri, le altre persone. Finalmente Parigi è tornata a RESPIRARE! Ma subito Valéry, mette in guardia i suoi contemporanei, perché c’è un pericolo che incombe sugli uomini molto più grande degli eventi della storia, delle guerre e delle dittature: “gli eventi sono solo la schiuma delle cose” . C’è un pericolo sotterraneo che minaccia l’uomo proprio nel suo centro nevralgico, cioè la sua anima, la sua mente, il suo cervello. La mente umana che, come vedremo tra poco, è il fulcro di ogni interesse per Valéry, è sotto assedio, minacciata da troppi stimoli, troppe distrazioni, troppi suoni, rumori e immagini, troppi e rapidi cambiamenti che la rendono inerme, disorientata e schiava di una situazione che gli è sfuggita di mano. La mente umana non è più padrona di se stessa, rischia di perdere la sua lucidità, e l’umanità va incontro ad uno scenario completamente nuovo e a dir poco inquietante. Scrive Valéry nel 1944:

“L’intelligenza, oggi, deve conservare tutta la sua lucidità (…). Si tratta di concepire un’era totalmente nuova. Ecco davanti a noi un caos universale di immagini e questioni. Stanno per presentarsi una quantità di situazioni e di problemi completamente inediti, in presenza dei quali tutto ciò che il passato ci insegna è più da temere che da meditare”.

Insomma, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale e alla luce dei cambiamenti epocali che caratterizzano la prima metà del Novecento, non si può più guardare al passato per affrontare le sfide del futuro: la storia non basta più a prevedere il futuro. Invece di guardarsi alle spalle, bisogna analizzare il presente, osservare il presente con lucidità e prepararlo ad un’era in cui tutto è sempre più provvisorio e instabile, totalmente imprevedibile. Si entra, sottolinea Valéry, in una nuova era: l’era del provvisorio, l’era dell’imprevisto assoluto. “Badiamo bene a non entrare nell’avvenire indietreggiando” dirà in altre occasioni. Cioè, a non entrare nel futuro, avendo ancora lo sguardo rivolto al passato, rivolto verso vecchie categorie di interpretazione della realtà, nell’illusione di risolvere problemi nuovi, completamente inediti, con soluzioni vecchie. Le nuove sfide dell’umanità esigono risposte nuove e complesse che la sola “storia”, lo studio degli avvenimenti del passato, non può colmare. Questo monito, con cui Valéry saluta la liberazione di Parigi, nasconde perciò un retrogusto amaro, che l’autore, non evita di lasciare ai suoi concittadini e all’umanità intera. Questo retrogusto caratterizza gran parte delle riflessioni che, a partire dagli anni Trenta, Valéry ci offre sul proprio tempo, sulla propria epoca, sul destino dell’Europa e del mondo. Sono gli Sguardi sul mondo attuale di cui abbiamo parlato in altre occasioni.

Tuttavia, in questa sede, anziché concentrarci sugli sviluppi per così dire “terminali” di questa grande personalità della cultura francese ed europea, andremo a rintracciare alcuni elementi fondamentali che caratterizzano gli inizi della sua lunga e ricchissima attività artistica, letteraria e filosofica (anche se Valéry avrebbe detto anti-filosofica). Lo faremo analizzando una delle figure dell’immaginario valeriano tra le più di enigmatiche, affascinanti e celebri della sua produzione letteraria, ovvero il personaggio di Monsieur Teste, il Signor Teste. Un personaggio che nasce dalla penna giovanile dello scrittore e che lo accompagnerà per tutta la vita.

Ciò di cui tratteremo perciò è un nuovo capitolo di quella “Commedia dell’Intelletto” che caratterizza buona parte dell’opera di Valéry. Infatti, uno degli interessi prevalenti della sua ricerca, che talvolta si concretizza in un’opera letteraria, com’è il caso di Leonardo Da Vinci oppure dello stesso Monsieur Teste, talvolta si cristallizza in un componimento poetico, o anche solo in un abbozzo, in un frammento incompiuto, ma sempre e comunque, prosegue sottotraccia nell’immane impresa filosofico-letteraria praticata da un certo momento in poi per 50 anni nei suoi ormai celebri Cahiers, è ricerca sull’intelletto umano, lo sforzo di capire i meccanismi di un cervello pensante.

I Quaderni di Valéry costituiscono un caso unico, nella letteratura europea, se non addirittura mondiale. Qui, il pensatore-scrittore in uno stato di particolare “lucidità”, ogni mattina, all’alba per cinquant’anni senza interruzione, consegna, insegue e trascrive i suoi pensieri, il nascere e il morire di figure, idee, immagini, questioni, connessioni, ipotesi, teoremi. In una parola: linguaggi per tradurre la Commedia dell’Intelletto, il palcoscenico dove nascono le idee e dove queste idee si concatenano alla ricerca di una forma possibile. Senza entrare nei dettagli, che pure meriterebbero grande attenzione e scrupolo, dobbiamo limitarci a constatare che i Cahiers sono un documento unico e, da un certo punto di vista, irripetibile. In queste migliaia e migliaia di fogli Valéry attraversa in lungo e in largo le possibilità della sua mente, mettendo nero su bianco il riflesso di ciò che accade dentro la testa di un uomo quando pensa, quando usa l’immaginazione, quando calcola, quando progetta, quando inventa, quando crea connessioni o, più semplicemente, quando non fa nulla. “Tantôt je pense tantôt je suis” (“A volte penso, a volte sono”). In una parola i Quaderni raccolgono le tracce, i frammenti, i sentieri, di quella stessa Commedia dell’Intelletto che ambiscono a chiarire. Come si diceva poco fa, infatti, uno degli interessi prevalenti della ricerca di Paul Valéry è la possibilità di comprendere e di penetrare il funzionamento della mente umana e delle sue capacità. Ciò che ossessiona Valéry, lungo tutto il corso della sua vita, è l’osservazione e lo studio dell’esprit umano e delle sue potenzialità. Ciò a cui ambisce è l’esplorazione del possibile di un uomo, anzitutto, nei termini di una mente umana. L’esprit è la mente dell’uomo, intesa come quel sofisticato congegno che gli consente di trasformare la realtà che lo circonda. E l’opera di Valéry, sia quella in versi sia quella in prosa, sia quella espressa in questa straordinaria contro-opera o opera-aperta che sono i Cahiers, tende a dare voce e fisionomia a questo tipo di ricerca: Come funziona la mente dell’uomo? Quali sono le sue possibilità e quali i suoi limiti?.

Nascono quindi, nel corso degli anni, parallelamente alla stesura dei Cahiers, una serie di “personaggi” che, a titolo diverso, ruotano tutti attorno a queste tematiche. Intendiamoci, non sono personaggi nel senso comune, non sono i personaggi di un romanzo, con una storia alle spalle e una storia da raccontare. Sono invece figure, modelli immaginati e costruiti da Valéry, spesso secondo tratti molto essenziali, per porre il problema di questa ricerca sui meccanismi e le possibilità della mente umana. Non sono nemmeno, o non del tutto, proiezioni biografiche dell’autore, non sono dei veri e propri alter-ego, o meglio, sono degli alter-ego a condizione però che siano epurati da ogni elemento autobiografico, biografico, e personalistico. E questo lo vedremo in maniera evidente con il personaggio di Monsieur Teste che è un uomo “qualunque”, disincarnato, spersonalizzato, che quasi non ha nome e cognome, anche se un nome ce l’ha: Edmund Teste. Un essere generico e astratto, universale: quelconque, un tizio qualunque o un qualunque tizio, si potrebbe dire.

Ci sono figure tratte dal mito come Narciso che vede la sua immagine riflessa nello specchio, a cui Valéry dedica la sua prima poesia pubblicata nel 1891; personaggi tratti o ispirati dalla storia come il già citato Leonardo Da Vinci (l’uomo universale, il cervello che tutto vede e tutto può), a cui dedica il suo primo scritto in prosa (Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, del 1895), ci sono poi un Descartes (l’uomo del metodo e della precisione), figura fondamentale per il nostro, c’è addirittura un Faust (l’uomo della fine, l’uomo del disastro assoluto, l’uomo del nichilismo assoluto), ma c’è anche un Ange, un Angelo (l’Intelligenza pura – che non è uomo – ma che, specchiandosi, si vede uomo), e infine c’è una dolce fanciulla sognante, Agathe che rappresenta la protagonista quel poema incompiuto pubblicato postumo dal titolo: Agathe. Manoscritto trovato in un cervello. E c’è Monsieur Teste, forse il capostipite insieme a Leonardo (cronologicamente parlando) di questa genia di cervelli-limite, di casi-limite dell’intelligenza umana e, quindi, sovr-umana.

Edizione francese di Monsieur Teste

Insomma, la produzione di Valéry è costellata da questi alter ego che, ciascuno con caratteristiche diverse, incarna una mente attenta, una mente cosciente, una mente attiva, una mente all’opera, una mente che pensa, una mente che lavora, una mente che guarda se stessa, una mente che sogna. Tutte queste figure, che costituiscono lo straordinario caleidoscopio dell’immaginario valeriano, sono il tentativo di dare voce e forma ad una sorta di “cervello” che esprime al massimo grado le sue funzioni e possibilità. Questo è il grande sogno di Valéry, un sogno che coltiva fin dalla prima giovinezza e che non sarà mai abbandonato. In poche parole, la domanda che potrebbe guidare la scoperta di questo strano catalogo di cervelli “illustri” è: cosa potrebbero fare un cervello, una mente, una coscienza, spinti ai limiti delle loro possibilità? Come immaginare un cervello senza limiti, capace di esprimere al massimo grado le sue potenzialità? Cosa troveremmo in questo cervello se potessimo guardarci dentro? Queste sono le domande a cui i personaggi citati e, su tutti, il nostro ancora enigmatico Monsieur Teste, tentano di dare risposta.

Ora, la biografia di Valéry non offre eventi particolari, ma c’è un momento di svolta che lui stesso non si stanca mai di ricordare, quasi a volerlo fissare come l’evento fondativo della sua crescita personale e intellettuale. È la cosiddetta “Notte di Genova”, la Nuit de Gênes. Siamo nel 1892, Valéry ha poco più di vent’anni, e sta vivendo una profonda crisi personale, dovuta un po’ agli incerti debutti nella società delle lettere con le prime poesie scritte per gli amici; un po’ ad una storia sentimentale andata a finire male; e soprattutto dovuta al non aver ancora deciso che cosa fare della propria vita. Questo giovane, dalla sensibilità molto accentuata, vuol fare il poeta. E quale tipo di poesia vuol fare? A quali modelli vuole ispirarsi? Quale contributo, quale originalità, può apportare, avendo alle spalle giganti come Verlaine, Rimbaud, Baudelaire, Mallarmé, per citare i principali.

Paul Verlaine e Arthur Rimbaud
Il giovane Paul Valéry

Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre del 1892, Valéry vive un’esperienza di grande turbamento, di grande scuotimento, con lampi e tuoni, sogni e visioni, che però gli danno un segnale, gli indicano una strada, una traiettoria, una direzione verso cui orientare le proprie forze e la propria attività di scrittore e di intellettuale. In seguito a questa terribile nottata rivelatrice, Valéry decide verso quali occupazioni rivolgere la propria attenzione: non più la poesia, così come l’aveva concepita finora, come “idolo” e non più quei poeti che avevano intriso le loro canzoni di sentimenti, emozioni, turbamenti psicologici spesso legati al sentimento più grande e più forte che è l’amore. Decide anche di distaccarsi e difendersi dalle cosiddette “passioni” che turbano l’animo dell’uomo, dagli eccessi di sensibilità, di non farsi più toccare, per quanto possibile, da quegli agenti emozionali che appesantiscono e in qualche modo intorbidiscono l’attività mentale, la lucidità di pensiero.

Targa che ricorda la Notte di Genova

Gli esiti della “Notte di Genova” mettono perciò il giovane Valéry sulla strada di una profonda e radicale riforma che ha come obiettivo principale quello di ricostruire una vita interiore, in maniera autonoma, senza assorbire le influenze esterne, e con esercizio e disciplina, vera e propria ginnastica mentale, guadagnare giorno dopo giorno una progressiva conoscenza di sé (che significa una conoscenza dei propri limiti) e una progressiva padronanza di sé (che significa, anzitutto, una padronanza del proprio linguaggio). Si inaugura così la lunga stagione dei Cahiers, che prendono forma proprio all’indomani di questo evento traumatico, e si predispongono i primi segnali di una nuova missione intellettuale che, certamente farà uso della parola, della scrittura e della poesia, ma non più come fine ultimo, per arrivare per forza ad un’’opera compiuta e finita, ma semplicemente come mezzo, come esercizio, come strumento per arrivare a qualcos’altro, per indagare le possibilità della mente umana, per analizzare i meccanismi del pensiero dell’uomo e i meccanismi segreti della creazione artistica. “Il pense toujour à autre chose“, direbbe il suo Leonardo. Pensa sempre ad altra cosa. Per i successivi vent’anni Valéry non pubblicherà un solo verso poetico: silenzio stampa. Sarà tutto impegnato nei suoi Cahiers che, è bene ricordarlo, non sono destinati alla pubblicazione e alla stesura di scritti occasionali e vissuti come “esercizi letterari” volti alla sperimentazione di nuove forme e allo sviluppo di certe linee di ricerca maturate negli stessi Cahiers.

Nel 1895 pubblica l’Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, in cui si immagina un cervello puro capace di cose straordinarie, e l’anno successivo, nel1896, pubblica La soirée avec Monsieur Teste, la Serata col Signor Teste. Dalla “Notte di Genova”, Valéry esce cambiato e con un piano di lavoro che non guarda più ai poeti-modello del passato, ma guarda ormai ad un’altra tipologia di modelli, a coloro che danno all’attività mentale, al dramma intellettuale (letteralmente, l’azione intellettuale), alla facoltà di attenzione, di precisione e di calcolo un’importanza predominante anche nel confezionare le loro opere artistiche, nella fattispecie, opere letterarie. Uno su tutti è Edgar Allan Poe che, nel costruire i suoi componimenti utilizza un certo metodo, una certa scientificità, una certa lucidità mentale, una capacità di calcolo applicata alla materia letteraria. La scientificità e il rigore applicati alla pratica poetica, quasi che lo scrittore fosse un chimico o un architetto, è ciò che eccita più d’ogni altra cosa il nostro Valéry: la possibilità cioè di costruire scientificamente un’opera d’arte, un processo che nulla ha a che fare con l’ideale del poeta ispirato, del poeta illuminato, del genio posseduto dal demone che lo guida nella creazione artistica. I modelli che ora Valéry insegue non sono uomini-ispirati, uomini-cuore, uomini-sentimento, ma sono uomini-testa, uomini-cervello, uomini-coscienza. È da questa atmosfera che prende vita il personaggio di Monsieur Teste.

Nelle prossime righe cercheremo di:

  • Inquadrare i dati anagrafici di Monsieur Teste. Dove, come e quando è nato?
  • Esplicitare alcuni caratteri peculiari del personaggio per come emergono dal testo.
  • Accennare ad alcune questioni aperte.

Partiamo allora dal primo punto: dove e quando è nato Monsieur Teste?

Un uomo senza volto

I retroscena della nascita di questo personaggio-limite ce li descrive lo stesso Valéry circa trent’anni dopo averlo creato, nella Prefazione del 1925. Perciò, come spesso accade con questo autore, il Valéry più maturo, dopo molti anni, ritorna sui suoi esordi e li ripensa, li contestualizza, li commenta, li ridimensiona, insomma, ci guida alla chiarificazione degli elementi genetici delle sue opere, quasi che non si fidasse del lettore o non volesse essere frainteso. In ogni caso anche su Monsieur Teste, Valéry ritorna e sentenzia:

“Questo personaggio di fantasia di cui divenni l’autore, ai tempi di una giovinezza a metà letteraria e a metà selvaggia o…interiore, sembra aver vissuto, da quell’epoca ormai lontana, di una certa vita (…). Teste fu generato, nella stessa stanza dove Auguste Comte trascorse i suoi primi anni, in una fase di ebbrezza della mia volontà e insieme a stravaganti eccessi di coscienza di me stesso”.

Quindi, il quadro genetico di Teste è, per l’appunto, una giovinezza ancora acerba e contrassegnata da una particolare situazione psicologica ed esistenziale dell’autore.

“Ero affetto dal male acuto della precisione. Ero teso all’estremo nell’insensato desiderio di comprendere, e cercavo dentro di me i punti critici della mia facoltà di attenzione”.

Questo giovane scrittore è impegnato in una lotta insensata contro i propri limiti, che sono poi i limiti di chiunque non abbia ancora dato forma alla propria interiorità. Le attività che lo tenevano impegnato erano tutte volte a pretendere dalla propria mente, dalle proprie capacità intellettuali, qualcosa di straordinario, qualcosa di più, di fuori dal comune come, ad esempio, prolungare la durata di certi pensieri, sforzare al massimo le proprie capacità di attenzione, cercare sempre la sensazione dello sforzo, di un certo sforzo intellettuale, una certa fatica cerebrale. Le cose che arrivano senza sforzo, non gli interessano. Le cose facili non lo appassionano. Ciò che il giovane Valéry insegue sono le cose difficili, quelle per cui è richiesta una certa dose di sacrificio, di precisione e di fatica.

“Ripudiavo non solo le Lettere, ma anche quasi tutta la Filosofia, come Cose Vaghe e Cose Impure a cui mi opponevo con tutta la mia anima”.

Valéry ammira la precisione, l’esattezza, il rigore scientifico nelle cose che si pensano, si dicono e si scrivono, e perciò, anzitutto, il rigore del linguaggio che si usa. Premure che, ai suoi occhi, letteratura e filosofia non potevano garantire. Da queste premesse nasce in Valéry una radicale critica del linguaggio verbale, parlato e ancor peggio scritto, che spesso trascina con sé ambiguità, impurità, polisemie, imprecisioni, approssimazioni. Il linguaggio è solo una una convenzione. I limiti del linguaggio nel rappresentare la realtà (sia essa interiore, sia essa esteriore) sono per Valéry insopportabili. Tanto vale costruirsi da zero un personale vocabolario tecnico a proprio uso e consumo, tanto vale adottare un sistema di simboli di cui si conoscano precisamente i significati, che siano ben definiti e scevri da ogni possibilità di fraintendimento. Questa ricerca spasmodica di un linguaggio puro percorre tutti i Cahiers e caratterizza principalmente quelli dei primi anni.

“Ero forte del mio infinito desiderio di pulizia, del mio disprezzo per le convinzioni e per gli idoli, del mio disgusto per la facilità e della mia percezione dei miei limiti. Mi ero costruito un’isola e trascorrevo il mio tempo a perlustrarla e a fortificarla…Monsieur Teste è nato un certo giorno dal ricordo ancora vivo di questi umori”.

Quindi Monsieur Teste è una “creatura eccezionale” nata in un “momento eccezionale”, quasi un mostro della fantasia. Teste è un lampo di luce, un abbaglio temporaneo che il giovane Valéry riesce a cogliere e a sviluppare nel modo che ora vedremo. Una creatura, in fin dei conti, ai limiti del possibile, una creatura impossibile.

“Monsieur Teste è il demone stesso della possibilità. Quel che lo domina è il pensiero di tutto quanto gli è possibile”.

“Osserva se stesso, manovra, non vuole essere manovrato. Conosce solo due valori, due categorie, che sono quelli della coscienza ridotta ai suoi atti: il possibile e l’impossibile. In quello strano cervello, dove la filosofia ha scarso credito, dove il linguaggio è sempre sotto accusa, non esiste pensiero che non sia accompagnato dalla consapevolezza della sua stessa provvisorietà“.

Tutto ciò che passa per la testa di questo cervello mostruoso è chiaro e definito, nessuna sbavatura, ogni pensiero dura quel che dura, senza residui, senza resto. Teste è assoluto padrone della propria attività mentale: “non esiste altro che l’attesa e l’esecuzione di precise operazioni. La  sua vita intensa e breve è dedicata a sorvegliare il meccanismo attraverso cui si crea e si organizza la relazione tra noto e ignoto”. Cioè, tra ciò che si conosce e ciò che non si conosce. Monsieur Teste vede e vigila, osserva, è pienamente consapevole, pienamente cosciente, del meccanismo con cui la mente produce conoscenza (il passaggio dall’ignoto al noto).

Queste sono le parole con cui, a distanza di trent’anni, Valéry descrive la figura di Teste che, come già è possibile percepire, rimane ancora astratta ed enigmatica. Ma com’è fatto Monsieur Teste. Chi è? Cosa fa? Cosa dice? Come si diceva, l’autore non ha nessun interesse a costruire un personaggio da romanzo, perciò gli elementi descrittivi che lo rappresentano sono davvero ridotti all’osso, quel che basta per “farlo stare in piedi”. Una testa, due occhi, una bocca e due gambe. Ci sono invece dei caratteri peculiari molto più interessanti che non la pressoché assente descrizione fisica di questo personaggio. Vediamone alcuni.

Anzitutto Monsieur Teste è un “uomo qualunque”, cioè è un uomo-tipo, non è nessuno, ma potrebbe essere chiunque. Non ha una personalità tutta sua (tratto in comune con il Leonardo di Valéry): non porta una maschera, non è una persona. “Monsieur Teste non aveva opinioni”. Inoltre, è un uomo di “poche parole”:

“Il suo modo di parlare era straordinariamente rapido, la sua voce sorda (…). Quando parlava, non alzava mai né un braccio né un dito: aveva ucciso la marionetta. Non sorrideva, non diceva né buongiorno né buonasera”.

Ecco, questo è un primo elemento importantissimo per entrare nel mondo di Teste: il suo linguaggio, la sua parola. Uomo di poche parole che, tra l’altro, non sono mai accompagnate da gesti, da una certa gestualità. Monsieur Teste infatti può benissimo farne a meno, non ha bisogno di gesti per comunicare oltre alle parole che usa, perché le parole che usa sono talmente precise, talmente puntuali, talmente pure da non richiedere nessun aiuto accessorio. Teste non dice mai nulla di vago, di impreciso, di ambiguo, usa il linguaggio con piena padronanza, usa solo le parole giuste al momento giusto tanto che “A quello che diceva non c’era nulla da rispondere”, perché la sua parola esatta non lascia spazi residui di incomprensione o di fraintendimento. Il suo, insomma, è un linguaggio esatto, preciso, selezionato, controllato, sorvegliato, cosciente: ogni frase ed ogni parola che esce dalla sua bocca è strettamente necessaria, non abbisogna di alcuna aggiunta. Quindi, primo carattere fondamentale di questo personaggio, Teste è assoluto padrone del linguaggio.

Il secondo carattere su cui ci soffermiamo, perché è anche il più importante e caratteristico, è legato al suo nome, anzi al suo cognome. Teste significa “testimone”: colui che vede e attesta il contenuto di ciò che vede. “Monsieur Teste è il testimone”: colui che giura su ciò che è passato sotto i suoi occhi; colui che ha visto ciò che altri non hanno potuto vedere.

Lo specchio misterioso di Magritte

Il tratto caratteristico dunque di questa “testa che vede” sono, appunto, i suoi occhi, lo sguardo. Teste è l’uomo dallo sguardo puro, attento e penetrante, è l’uomo del vedere profondo, della coscienza pura, della coscienza cosciente. Teste è colui che vede ogni cosa e di ogni cosa ha piena contezza. Questo elemento descrittivo, legato allo sguardo di Monsieur Teste, rappresenta uno dei temi più percorsi da Valéry: il vedere, la visione, l’attenzione visiva, il guardare. Un tema che Valéry declina in innumerevoli modi e che qui si realizza in un personaggio che non solo è occhio che vede verso l’esterno, ma è anche occhio che vede anche verso l’interno. Perché è così importante il tema del guardare e dello sguardo? Proviamo a fare un piccolo esercizio, un esperimento o un gioco di quelli che i bambini sono grandi esperti.

Disegniamo un cerchio:

Un cerchio

Nel vedere questa immagine il nostro occhio la riconosce immediatamente come un “cerchio”, quella figura geometrica che non è né un quadrato né un triangolo. Ora, però, aggiungiamo al cerchio due piccoli elementi in una certa posizione: due punti. Noteremo subito la figura di partenza subirà una trasformazione. Accadrà qualcosa di straordinario.

Aggiungiamo due punti in una precisa posizione del cerchio

Ecco il risultato:

Due punti posizionati nel cerchio

Grazie a questa semplice operazione, un anonimo cerchio si è completamente trasformato: è diventato un cerchio con due occhi, un volto, un volto che vede, uno sguardo. L’aver aggiunto al nostro cerchio di partenza due semplici puntini costringe il nostro cervello a riconoscervi immediatamente uno sguardo, due occhi che ci guardano. Con questo semplice gesto, mettere gli occhi ad un cerchio, a questa figura la vita abbiamo conferito una certa “vita”. Questo cerchio, ora che vede, è vivo! Ci guarda, ci sentiamo da lui osservati, guardati! In generale, se noi applichiamo due occhi (qui simboleggiati da due punti) ad una qualsiasi superficie, si pensi ad esempio al tronco di un albero, a quell’oggetto stiamo dando un certa vita, un’anima, uno sguardo che ci osserva. Sotto il suo sguardo ci sentiremo inevitabilmente osservati, sorvegliati, riguardati. Questa è la sensazione che si prova davanti al personaggio di Monsieur Teste: un uomo-specchio, un uomo di vetro che osserva, ci osserva e si osserva, che vede e si vede nell’atto di vedersi. Dice Monsieur Teste: “Esisto e mi vedo; sto vedendo che mi vedo, e via di seguito”. Monsieur Teste è un sofisticato congegno di specchi, è l’incarnazione di quel gioco di specchi che caratterizza la mente cosciente dell’uomo.

La formazione dell’immagine nell’occhio umano. Incisione tratta dalla Diottrica di Descartes (1664)

La lingua francese in questo caso ci aiuta in quanto offre il termine re-garder per dire guardare, osservare, ma anche avere ri-guardo, stare sotto la guardia, la salvaguardia, la sorveglianza, il controllo di uno sguardo. Ben oltre il semplice “vedere”, ciò che io guardo, sempre mi ri-guarda, sempre risponde a questo sguardo, sempre riflette, come in uno specchio, lo sguardo. Attraverso l’esperienza dello specchio, della nostra immagine riflessa nello specchio, noi ci ri-conosciamo, vediamo in quell’immagine noi stessi e, allo stesso, tempo, ci riconosciamo come noi stessi perché nello specchio vediamo qualcun altro: un terzo, un testimone. Si affaccia così la cifra peculiare di questo strano personaggio e, cioè, l’esperienza dell’autocoscienza, della visione di sé come se fosse un altro, dell’auto-scopia di se stessi. Ecco la pasta di cui è fatto Monsieur Teste: coscienza e auto-coscienza. E in questo personaggio “assurdo”, la coscienza è spinta ai suoi limiti più estremi: la sua vita è la vita di una mente che che si vede vedersi: si guarda nell’atto di vedere se stessa. Siamo ai limiti di un esperimento mentale ellittico. Teste è l’uomo dell’attenzione suprema, dell’attenzione portata ai suoi limiti estremi. Un uomo, una mente, un cervello ai limiti della coscienza.

Teste e il suo interlocutore al Cafè

Ascoltiamo allora le parole con cui Valéry, immedesimandosi in un ipotetico amico-interlocutore di Monsieur Teste, ce lo descrive.

“Ho studiato i suoi occhi, i suoi abiti, le sue poche parole sorde al cameriere del caffè dove lo vedevo. Mi chiedevo se si sentisse osservato”.

La scena è quindi questa: Monsieur Teste è seduto al bar e c’è una seconda persona, il narratore, che, a sua insaputa, lo osserva. B osserva A che sembra non sapere di essere osservato. In realtà, si scopre subito dopo, avendo a che fare con lo sguardo di Teste, questo rapporto è totalmente rovesciato. A osserva B che non sa di essere osservato da A.

“Distoglievo prontamente il mio sguardo dal suo, per poi sorprendere il suo sguardo che mi seguiva”.

Capita anche a noi talvolta: quando pensiamo di osservare qualcuno a sua insaputa, ma appena distogliamo lo sguardo, ci rendiamo conto che è lui che sta fissando noi. Nell’entrare in contatto con Teste, ci dice il narratore, “Sentivo che era padrone del proprio pensiero”, padrone del pensiero, padrone della mente, padrone della sua attenzione, padrone del suo sguardo.

Cosa accade allora durante questa Soirée avec Monsieur Teste, la serata in compagnia di un personaggio tanto eccezionale. In realtà, in termini di trama, non accade granché. Tutto è molto essenziale. I due si incontrano, scambiano qualche parola, fumano un sigaro. Ma, ad un certo punto, vanno a teatro. E l’esperienza del teatro ci aiuta a chiarire l’entità della figura di Monsieur Teste, poiché qui assistiamo alla messa in scena della sua mostruosa ed impossibile capacità di attenzione.

Il teatro

I due si siedono in loggia e osservano il palcoscenico e la platea dall’alto. Tutto è sorvegliato dall’occhio attento di Teste, nulla gli sfugge.

“Non si lasciava sfuggire un atomo di quanto via via diveniva visibile in quella grandiosità di rosso e oro (…). Guardavo quel cranio che prendeva confidenza con gli angoli del capitello, la mano destra che si rinfrescava sulle dorature; e, nell’ombra purpurea, i piedi grandi (…). Fissò a lungo un giovane di fronte a noi, poi una signora, poi un gruppo intero nelle gallerie superiori (…) e poi tutti gli altri, l’intero teatro pieno come la volta celeste, ardente e affascinato dalla scena che noi non riuscivamo a vedere“.

Capiamo che i due protagonisti non stanno guardando, come tutti gli altri, lo spettacolo vero e proprio. Stanno invece assistendo ad un altro spettacolo. Stanno infatti osservando gli spettatori stessi, coloro che guardano lo spettacolo. Solo per riflesso, interpretando le loro espressioni, capiscono cosa sta accadendo in scena! “Lo stato di stupore degli altri ci faceva capire che stava accadendo qualcosa di sublime”. Le luci si abbassano e rimangono quei volti fosforescenti a fissare la scena quasi ipnotizzati.

Guardare coloro che guardano

“Sentivo che quel crepuscolo rendeva tutti quegli esseri passivi. La loro attenzione e l’oscurità crescevano in costante equilibrio. Io stesso ero necessariamente attento a tutta quell’attenzione”.

Grazie alla scena del teatro qui descritta, in cui i due, osservano non la scena, ma sono rapiti dall’attenzione che essa provoca negli altri spettatori, abbiamo un’immagine plastica di uno dei significati che è possibile dare alla figura di Teste: la sua suprema capacità di attenzione si applica sull’attenzione stessa, egli sorveglia la sua attenzione, in un circuito visivo che non lascia spazi inosservati.

“Esisto e mi vedo; sto vedendo che mi vedo, e via di seguito”.

Avvicinandoci alla conclusione di questa breve incursione nel mondo di Teste, è opportuno sottolineare un piccolo ma significativo colpo di scena che occupa le ultime pagine di questa Serata.

Teste e il suo interlocutore a passeggio

Lo spettacolo è finito, i due amici escono dal teatro e fanno una breve passeggiata per tornare verso casa. Qualche parola tra loro, Teste si lamenta della “frescura di mezzanotte” e sembra quasi parlare a sproposito mentre l’interlocutore fatica a seguire i suoi discorsi. Ad un certo punto però Teste ribadisce la sua più ferma convinzione:

“Che mi importa del talento dei vostri alberi o degli altri!… Resto a casa mia, parlo la mia lingua, odio le cose straordinarie. Servono solo agli spiriti deboli. Credetemi alla lettera: il genio è facile, la divinità è facile…Intendo semplicemente dire – che so come vengono concepiti. È facile”.

E sigilla questa critica della facilità e del genio con la domanda che Monsieur Teste stesso incarna nell’intera opera di Valéry: Que peut un homme? È questa la domanda capitale, la domanda guida: Che cosa può un uomo? È una domanda che possiamo declinare in molti modi, ma che anzitutto pone la questione del limite. Quanto può un uomo? Fino a che punto può un uomo? Qual è il suo possibile? Monsieur Teste vive solo per rispondere a quest’unica domanda.

Arriviamo dunque al colpo di scena finale. La serata volge al termine, l’accompagnatore di Teste lo segue fino all’ingresso di casa e viene invitato a salire per fumare un ultimo sigaro e salutarsi. Come potevamo sospettare, l’appartamento di Teste è spartano, anonimo, riflette, insomma, quel qualunquismo che egli stesso incarna. I due parlano ancora un po’. Teste sciorina numeri e formule matematiche: “Otto cento dieci milioni settantacinquemila cinque cento cinquanta…”. I numeri che gli escono dalla bocca sembrano quasi una musica, una poesia, questo grazie alle proprietà di linguaggio di cui abbiamo parlato poco fa. Ad un certo punto però cala il silenzio. “All’improvviso tacque”.

Edmund Teste tra numeri e formule

Non ci resta che leggere e commentare questo straordinario finale, molto intenso e rivelatore che, ancora una volta, ruota attorno, seppure in termini diversi (o forse no), alla questione centrale di tutta questa strana storia fornendo una prima risposta alla domanda: “Che cosa può un uomo?”. Leggiamo.

“All’improvviso tacque. Soffriva. Per non guardarlo, tornai ad osservare la camera fredda, la pochezza dell’arredo. Prese la una fiala e bevve. Mi alzai per andarmene. «Restate ancora» ”disse «non fateci caso. Mi metto a letto. In pochi istanti mi addormento. Per scendere prendete la candela».

La camera da letto

Dunque cosa sta accadendo nella stanza di Teste? Evidentemente l’atmosfera è un po’ cambiata: siamo a tarda notte e il nostro protagonista è visibilmente stanco, appesantito, sofferente. Chiede al suo amico di restare ancora un po’, di assisterlo mentre si mette a letto e rapidamente si addormenterà. Poi potrà andarsene. Una richiesta alquanto strana si dirà. Ecco cosa accade in seguito.

“Con calma si svestì. Il corpo magro affondò tra le lenzuola e fece il morto. Poi si girò, sprofondando ancor più nel letto troppo corto. Sorridendo mi disse: «Sono come una zattera. Galleggio…»“.

Non sfugga l’importanza della scena a cui stiamo assistendo. Qui, Monsieur Teste, questo personaggio austero, rigoroso, impeccabile, impenetrabile, sembra tornare bambino, un bambino che ha un rapporto speciale con il proprio corpo. Un corpo esile, magro, ossuto, fragile: si distende a letto e si diverte a “fare il morto” come se le lenzuola fossero la superficie del mare e, nel farlo, dice quasi divertito: “Guardate! Sto galleggiando!”. A questo punto Teste parla del suo rapporto con la notte, con il sonno, con il sogno e dice:

“Dormo un’ora o due al massimo, io che adoro la navigazione notturna. Spesso non distinguo più i pensieri prima del sonno. Non capisco se ho dormito. Un tempo, mentre mi assopivo, pensavo a tutto quello che mi aveva dato piacere, volti, cose, momenti. Li evocavo perché il pensiero fosse più dolce possibile, confortevole come il letto…Sono vecchio”.

Quest’ultima affermazione, “Sono vecchio”, significa “Ho fatto tutto quello che potevo fare”, “Mi conosco alla perfezione”, “Conosco la mia mente”, “Conosco il mio corpo”. Ed ecco il colpo di scena che stavamo aspettando: l’irruente comparsa del corpo. Il vero protagonista di questo finale non è più solo la mente, bensì il corpo, o meglio, la sofferenza del corpo. La sofferenza fisica del corpo è il limite invalicabile persino per un uomo “senza corpo” come Monsieur Teste. La sofferenza del corpo, un corpo vecchio o un corpo malato, è ciò che mette a dura prova le facoltà della mente dell’uomo e, soprattutto, la facoltà che abbiamo visto essere centrale, ossia quella dell’attenzione. Il corpo richiede attenzione, pretende la nostra attenzione. Il corpo sofferente, ancor più, come esperienza dell’attenzione è ciò che conferisce a Monsieur Teste il titolo di mistico senza Dio.

Teste sta parlando, ma all’improvviso si interrompe e segnala, con la voce, un accesso di dolore.

«Ah». Soffriva. «Ma cosa avete?» gli dissi «posso…». «Niente di grave…» disse lui «un decimo di secondo che mi appare…Aspettate…Ci sono istanti in cui nel mio corpo si fa luce…È davvero curioso. Tutto a un tratto vedo dentro di me…distinguo gli strati profondi della mia carne; e sento delle zone di dolore, anelli, poli, pennacchi di dolore».”

Ci sono istanti in cui nel mio corpo si fa luce…È davvero curioso. Tutto a un tratto vedo dentro di me…distinguo gli strati profondi della mia carne; e sento delle zone di dolore, anelli, poli, pennacchi di dolore».”

Cosa sta descrivendo Monsieur Teste? Sta descrivendo l’esperienza del dolore e, contemporaneamente, della coscienza di questo dolore. Lo possiamo fare anche noi: se per un momento ci concentriamo sul nostro corpo, ci mettiamo in ascolto del nostro corpo (l’ideale è appunto a letto, totalmente rilassati, quasi a “fare il morto”), se prestiamo attenzione per qualche istante, focalizzando l’attenzione su tutto il nostro corpo, si faranno progressivamente percepire delle zone dolenti, piccoli dolori, piccole pressioni, brevi fitte a cui solitamente non facciamo caso. Se ascoltiamo il nostro corpo scopriremo angoli di dolore, anche se di lieve entità. Questi piccoli dolori, prima totalmente invisibili, ora che la nostra attenzione li ha focalizzati, si fanno sentire, catturano e trattengono la nostra attenzione. Al corpo di Teste capita la stessa cosa: i dolori che emergono dal suo corpo gli si offrono come lampi di luce capaci di fargli vedere attraverso il suo corpo, dentro la sua carne. È un’esperienza straordinaria, un’esperienza quasi “mistica” potremmo dire. Queste zone di dolore si illuminano, lampeggiano, pulsano, attirano l’attenzione come dei fanalini d’allarme. Così continua questo straordinario racconto della sofferenza di Monsieur Teste:

“Vedete queste figure vive? Questa geometria della mia sofferenza? Ci sono lampi del tutto simili a idee. Permettono di comprendere – da qui a lì”. Questi flutti di dolore si accendono come si accende un idea, un’intuizione, una luce che consente, pur nel momento di un lampo, di vedere meglio, di vedere di più, di comprendere. “Quando l’attimo – l’attimo di dolore, l’attimo di luce, l’attimo di comprensione – sta per arrivare, avverto in me un che di confuso o diffuso. Si formano nel mio essere spazi…nebbiosi, appaiono ampie distese”.

Che fare allora di questi attimi di luce? Attimi di attenzione? Come sfruttarli?

“Allora – in quei momenti – cerco nella memoria una domanda, un problema qualsiasi…Mi ci immergo”.

Sfruttando la luminosità che la sofferenza del corpo produce richiamando così l’attenzione, risvegliandola da uno stato di assopimento, Teste sottopone a questa luce un oggetto (una certa domanda, un problema, un’occupazione). Dice: “Conto i granelli di sabbia…e finché li vedo…Il dolore che aumenta mi costringe a osservarlo. Ci penso! – Attendo soltanto il mio urlo…e non appena lo sento – l’oggetto, il terribile oggetto che si fa più piccolo, sempre più piccolo, si sottrae alla mia vita interiore”.

Per riassumere questo passaggio: la sofferenza del corpo attira su di sé, più di ogni altra cosa, la nostra attenzione. Il dolore fisico è capace di risvegliare e catturare la nostra attenzione in maniera unica. Pensiamoci: quando abbiamo male ad un mignolo o a un dente, possiamo fare di tutto e distrarci in ogni modo, ma la nostra attenzione andrà continuamente a sbattere su quel dolore, anche se minimo. Come si dice: la lingua batte, dove il dente duole. Così, l’attenzione batte dove il corpo duole. Ma la cosa più interessante e che andrebbe approfondita è che dalla finestra sul corpo sofferente che aizza in maniera così potente l’attenzione della mente, si offre come occasione per seguire la scia di luce gettata e impiegarla per altri scopi, esercitarla, rinforzarla, incarnarla, renderla automatica. Esercitare l’attenzione come si muove un braccio.

Ecco il finale allora:

“Cosa può un uomo? Io lotto contro tutto – tranne contro la sofferenza del mio corpo, al di là di una certa intensità. È da qui, tuttavia, che dovrei partire. Perché soffrire è dare a qualcosa un’attenzione suprema, e in un certo senso io sono l’uomo dell’attenzione…”.

Il dolore e l’attenzione

Che cosa può un uomo? Un uomo può fino a che non incontra il dolore. L’attenzione dell’uomo può esercitarsi ipoteticamente senza limiti (com’è il caso immaginato per Monsieur Teste) fino però ad un limite molto concreto: la sofferenza del corpo. Perché quando si fa sentire la sofferenza del corpo ecco che la nostra attenzione è tutta assorbita da quel dolore. Anche un minimo dolore richiama la nostra massima attenzione, tanto grande è il dolore, tanto grande è l’attenzione che esso richiede. Ai limiti dell’attenzione, c’è il dolore. Quanto può un uomo? Un uomo può fino al limite del dolore, superato il limite del dolore, c’è solo la morte.

“Soffrire è dare a qualcosa un’attenzione suprema”.

Viste le premesse, questo epilogo sul corpo e la sofferenza del corpo potrà risultare del tutto inaspettato. Nonostante Teste sia l’uomo padrone di sé, padrone del suo linguaggio e del suo sguardo, egli non è però pienamente padrone del suo corpo, non è in grado di dominare la sofferenza del corpo: “Io combatto tutto” ma fino a un certo punto, fino a che non si imbatte nell’esperienza del dolore che scombina le carte, che richiede tutta l’attenzione che può darle. Insomma, come tutti sappiamo, “il corpo non sente ragioni”, quando il corpo soffre, anche una mente lucida e precisa come quella di Monsieur Teste può vacillare e scoprirsi impotente. In queste ultime righe Valéry ci presenta gli abbozzi di una “filosofia del dolore” strettamente legata ad una “fisica della coscienza”: il dolore qui viene presentato, nel suo lato positivo, come forza motrice dell’attenzione, come occasione da sfruttare per portare a compimento quel disegno – nato in gioventù – di mantenere viva e attiva la propria lucidità mentale.

Un “Mistico senza Dio” allora questo Monsieur Teste? Queste sono le parole che Valéry mette in bocca alla moglie di Edmund Teste. La signora Teste. A lei, questo marito così singolare, così strano, così “assente e presente”, così superiore, così estraneo, così vicino ad un “angelo”, così “altrove”, è come “un mistico senza Dio”, un uomo dalla coscienza che valica gli ordinari confini del visibile, un uomo della visione che trascende le abituali barriere della realtà, un uomo che ha fatto dell’attenzione la sua religione. Un uomo dallo sguardo distaccato e disincarnato capace di vedere senza essere toccato da ciò che vede.  

Teste infine si addormenta e consegna al sogno il testimone del suo pensiero: “Esisto e mi vedo; sto vedendo che mi vedo, e via di seguito…Pensiamoci bene. Bah! Ci si addormenta su un tema qualsiasi…Il sonno porta avanti qualsiasi idea…”.

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